"Si faccia luce!", queste sono le parole che, subito dopo una tragedia sul lavoro, i politici e le istituzioni normalmente pronunciano.
Quando il buio è arrivato per le vittime che, la mattina entrando al lavoro non intendevano perdere la vita, ma portare a casa i soldi per vivere insieme ai loro cari.
Ogni mattina vediamo tante persone che si avviano verso i cantieri, le aziende, i luoghi di lavoro. Molti di loro non hanno neppure una sede, una possibilità di rifocillarsi, se non per quello che si portano da casa e mandano giù durante la pausa pranzo.
La luce, dovrebbe esser fatta prima, non successivamente. E la luce non la si fa solo intensificando i controlli necessari, resi blandi dall’inesistente numero di ispettori presenti, senza ricambio.
Una tattica politica che viene adottata laddove moralismi o atteggiamenti permissivi, si insinuano tra le norme, rendendole inefficaci.
Le condizioni di lavoro, cui una concorrenza spietata dettata dal mercato e che la classe manageriale orienta al ribasso per massimizzare i profitti, costituiscono la causa prima dell’inosservanza delle norme di sicurezza.
Di fatto, nel nostro Paese la normativa vigente per la sicurezza è all’avanguardia in Europa e nel mondo, ma non il rispetto della stessa, in cui aziende e lavoratori, ognuno per la loro parte hanno un ruolo e una responsabilità.
Del resto è impensabile che, un lavoratore interinale o a giornata, pretenda ciò che l’impresa o l’azienda non gli da, perché sa che il giorno dopo non verrà più chiamato a lavorare.
La parte debole nei contratti diventa ostaggio e oggetto di ricatto, cui le norme esistenti, in modo velato e non esplicito consentono.
L’emersione del lavoro nero non si ottiene normalizzando lo sfruttamento, come si è fatto finora, ma regolando un mercato, in cui la qualità del lavoro deve essere premiante nell’aggiudicazione degli appalti.
Maurizio Ciotola